La morte è un
argomento che, al solo accenno, a un buon numero di persone fa muovere
automaticamente la mano in segno di scongiuro, anche se il parlarne non ha mai
abbreviato la vita a nessuno.
Se ne dovrebbe parlare
sin dalla prima infanzia, perché i bambini costruiscono con logica i loro
ragionamento, meglio di noi adulti. Il tenerli lontano dalla morte dei nostri
parenti non li aiuta a crescere nella consapevolezza che la nostra vita ha un
limite.
Sin dalla nascita
siamo educati e cresciamo come se la nostra vita avesse durata illimitata. Questo
“peccato originale”, rubandoci la consapevolezza del tempo limitato di cui
disponiamo, inquina i nostri rapporti umani togliendoci gran parte della gioia
e serenità che ci sarebbe toccata.
Sappiamo tutti che non
è facile immergerci ogni momento nella consapevolezza della nostra caducità.
Non è facile per uno che crede in Dio e non lo è per chi non crede a nulla.
Per il credente il
trapasso dovrebbe essere un fatto del tutto naturale, la realizzazione di un atto
di fede.
Per una tipologia di non
credente (positivo) basta un comportamento corretto e onesto con le persone per
la miglior convivenza possibile su questa terra; per un’altra (negativo) è lo sfruttare
tutte le occasioni piacevoli che si presentano perché con la morte si
esauriscono tutte le possibilità.
In ogni caso per
essere sempre pronti “con la valigia in mano” dovremmo essere Santi. E non è
un’ affermazione di scoraggiamento o di impotenza bensì la presa di coscienza
di essere imperfetti e di aver bisogno, i credenti, della misericordia di Dio
per poter guadagnare la vita eterna, un equilibrio psico-fisico basato su ciò
che è bene e ciò che è male, per i non credenti.
I non credenti (positivi)
potrebbero dire: io sono onesto e vivo d’amore e d’accordo con tutti e faccio
una vita serena fino alla fine dei miei giorni: il dopo non mi riguarda.
Sappiamo però che nessuno è capace di non compromettere mai alcuna relazione
per tutta la vita; e poi, quando è il momento, davanti al nulla, è così
tranquillo il passaggio?
Lo strappo del
distacco da questo mondo genera un sentimento di paura dell’ignoto, un
sentimento umano che attesta la nostra fragilità: per mancanza di fede o perché
la presunta razionalità non è in grado di spiegare questo mistero.
Solo una grande fede
può alleviare il passaggio alla vita eterna. “Io invidio voi che credete nell’aldilà
perché avete una speranza che io non ho” ebbe a dirmi un’amica un po’ di tempo
fa. Questa è ciò che differenzia i credenti dai non credenti: la speranza che,
sostenuta dalla fede, ci concede di prepararci, con trepidazione si, ma con la
sicurezza sul nostro futuro. Tutto questo sarebbe automatico se fossimo davvero
seguaci di Cristo; ma siccome siamo lontani dall'essere “trafitti” dalla sua passione,
abbiamo paura della morte e continueremo ad averne fino a quando avremo
accettato di averla a fianco sul cammino della nostra vita.
Infatti “prima di
essere credenti dobbiamo essere credibili” ci diceva P. Abramo agli esercizi
spirituali, e per essere credibili bisogna essere esemplari col proprio comportamento
quotidiano.
Se la morte ci
accompagnasse come un Angelo custode potremmo anche scherzarci insieme e, come
nella barzelletta, dirle: “Diga al Signur che ta met mia troat”. Potremmo
scoprire che a non demonizzarla riusciamo a campare di più.