A chi mi chiedeva:
“Chi te lo fa fare” ho provato a rispondere, ma mi sono subito reso conto di
essere poco comprensibile. Non è facile tradurre sentimenti ed emozioni
personali abbinati alla fatica quotidiana di portare uno zaino lungo un
cammino. E non sono nemmeno gli stessi sentimenti che si provano nei tanti
pellegrinaggi giornalieri che nascono ormai un po’ dovunque. Non si tratta
neppure di assegnare al “cammino” un’importanza basata sulla sua lunghezza o al
numero di chiese che ci sono sul suo percorso. E’ un’esperienza che ogni
pellegrino fa portando sé stesso (con quello che è) incontro agli altri,
confidando di allacciare un filo col suo Creatore attraverso di loro e
attraverso la natura che ogni giorno scorre davanti ai suoi occhi. Ma non è
tutto bello e radioso; alla gioia di certi incontri a volte si alterna la
delusione per un’accoglienza blanda, senza calore, forse data col sospetto di
essere in presenza di turisti scrocconi, magari offerta proprio da coloro dai
quali ti aspetti di più: sacerdoti e laici di una parrocchia; a volte, nonostante
le telefonate, è proprio qualcuno di loro a dimenticarsi di te, e tu rimani
fuori ad aspettare per ore. Ma qualcuno veglia su di te e supplisce a queste
mancanze favorendo delle coincidenze che si manifestano al momento giusto e ti
tolgono dagli impicci: è la mano della Provvidenza, il filo che volevi
allacciare si è allacciato, se ci credi. Forse qualcuno ritiene di essere
particolarmente fortunato e le coincidenze sono tutte per lui; io penso che
quando in un tempo relativamente breve queste “fortune” si ripetono con una
certa frequenza, non si tratta più di coincidenze. Quando un referente è
irreperibile e tu riesci a trovare un suo collaboratore che non conoscevi, che
non risiede in paese e che hai trovato per caso perché aveva un appuntamento con
una persona proprio in quel momento, e un minuto dopo sarebbe stato altrove
lasciandoti sconsolato all’addiaccio; quando un referente, pur esso
irreperibile, viene sostituito dalla carità di una donna che s’immedesima nelle tue difficoltà e fa
surriscaldare il suo cellulare fino a quando trova una persona che ti apre il
rifugio e ti consente di riposare dopo ore di attesa; quando alle cinque del
mattino arrivi ad un incrocio con più strade, senza una sola indicazione, e si
ferma un’automobilista a chiederti se hai bisogno e dove sei diretto; quando
inutilmente vai cercando un bar dopo essere rimasto senza acqua e un passante
al quale ti sei rivolto te la offre; ed altre ancora; tu chiamale come vuoi, io
ringrazio la Provvidenza.
Mi piace pensare che
queste “scosse” rianimino la mummia che sta dentro di me e mi facciano
migliore: in fondo la meta, agognata fin dalla partenza, è un Santuario (nel
nostro caso dedicato all’Arcangelo S. Michele) presso il quale chiedere una
particolare intercessione, ci può ben stare, quindi, anche questa aspirazione.
Si torna “nuovi”? No!
Ma un pochino diversi si! Si ha più coscienza delle proprie debolezze ma anche
la consapevolezza che il “pellegrinaggio a piedi” costituisce un mezzo per
conoscere meglio se stessi e domarle. Forse per questo si dice che si è
pellegrini per sempre. Il cammino lento ti entra dentro perché ti obbliga a
riflettere e ti costringe a continui esami di coscienza. Le tappe sono la tua
preghiera e la tua penitenza: non rinunceresti mai a una tappa prima di aver
raggiunto la meta: temi solo il tuo stato fisico, nessuna intemperie ti può
fermare. Sei ben consapevole di non compiere alcuna impresa importante; tutti
possono fare un “pellegrinaggio a piedi” (salute permettendo), quelli che vanno
più spediti e quelli più lenti; il risultato sarebbe sempre lo stesso: ne rimarresti
conquistato.