La
pratica dell’uccellagione risale, secondo documenti storici, al 1400 e gli
aristocratici prima, la borghesia dopo, hanno sempre ritenuto un privilegio
l’avere un roccolo. Anche Giuseppe Zanardelli, statista bresciano, rimarcava la
grande importanza dell’industria delle reti sia da pesca che per l’uccellagione.
Allora si gioiva del benessere che questa tipologia di caccia portava alla
popolazione, sulla tavola e nell’industria tipica. Non ha visto alcuna
riduzione delle specie volatili fino all’avvento dei pesticidi e sulle tavole
di tante famiglie bresciane e bergamasche ha prevalso questo cibo a buon
mercato e tanto … succulento.
Il
roccolo veniva costruito sui pendii, affinchè i volatili, spaventati dallo
“spauracchio” e dal fischio che simulava il verso del falco, potessero
precipitarsi il più basso possibile per salvarsi dal predatore e finire nella
rete. La rete di cattura stava in mezzo ad altre due più robuste e di maglia
larga, ben tese lungo il perimetro. Veniva costruito a ferro di cavallo con un
diametro di 20-30 metri con il “casello” al centro che fungeva di cabina di
regia.
La
mia generazione ha conosciuto due roccoli nel circondario del paese che ormai
non esistono più: quello del “Viglio” sulle colline in fondo a Val Bertone e
“Baglioni” salendo da S. Eusebio verso la Corna Lunga. Nel primo si trovavano i
richiami di tutte le specie cacciabili; nel secondo prevalentemente tordi,
merli e cesene. Prelevati dalle gabbie venivano inserite nelle calze di nylon
che ci portavamo appresso e che permettevano agli uccelli di respirare durante
il tragitto.