Anche se meno, rispetto alla prima ondata,
sento e leggo che il Covid è una guerra. E, nel sommo rispetto delle tragedie
personali e familiari che tutti hanno toccato, sento che non è giusto.
Per fortuna la maggior parte di noi,
viventi in una nazione occidentale, non sa cosa sia una guerra, però ci sono
racconti, film, documenti e documentari, e, per chi ne ha avuto l’occasione e
la forza, anche la presenza su uno dei numerosi fronti attuali.
In guerra non hai l’autocertificazione:
esci di casa e non sai se torni; non mandi tuo figlio a portare a spasso il
cane, ma a comprare il pane se c’è, dove c’è, e potresti non più rivederlo; il
vicino di casa non ti sposta lo zerbino per dispetto, non litiga sui millesimi,
ma ti tradisce facendoti fucilare; in guerra non ci sono i supermercati e
negozi di alimentari a presenza contingentata, si fa la fame; in guerra il tuo
ragazzo sente fischiar pallottole, non è prigioniero in una regione di diverso
colore.
A rafforzare la precisazione, una
recente intervista allo scrittore italo-sloveno centosettenne Boris Phaor. Due volte al
fronte, ammalato di TBC, contagiato dalla “spagnola”. Chiede l’intervistatore: “Differenze
tra ieri e oggi?”. – “Mascherine? Non c’erano. Medici? Erano al fronte. Avevamo
fame, fame nera. Una rosetta a testa con la tessera annonaria e bisognava
andare sul Carso a cercare la polenta. La vita normale era segnata dalla fame.”
Non dall’attesa del prossimo DPCM.
Roberto Bernardo
Giornale di Bs 6/12/2020