Nonostante il tiepidume che avvolge la mia vita cristiana, mi sia consentito di offrire il mio contributo di discussione sulla costituenda Unità Pastorale.
Innanzitutto,
ci tengo a precisare che non è, e non può essere messo in discussione, la
centralità del “pastore” che conduce il suo gregge, sia esso sacerdote, vescovo
o Pontefice. Questi sono l’unico aiuto che l’uomo ha per migliorare la propria
vita cristiana e quindi “salvarsi”. Non è pensabile una buona Unità Pastorale
senza una guida sacerdotale. Ciò non esclude che una Unità Pastorale possa
svilupparsi autonoma e in modo armonioso e laico, ma personalmente la considero
una grande utopia.
Comunque
la vogliamo vedere è sotto gli occhi di tutti il risultato della
secolarizzazione. L’adeguamento alla cultura moderna ha ridotto la sensibilità
verso il Sacro, la persona (se non addirittura gli animali) è diventata il centro della nostra attenzione e di tutta l'esistenza
umana. Questo ci ha reso enormemente più fragili. Giusta la fraternità, la solidarietà e la giustizia, ma non basta.
Il
benessere (chi non lo riconosce faccia i dovuti paragoni coi tempi delle
emigrazioni) ci ha allontanati dalle pratiche essenziali della nostra
religione intruppandoci nella cultura del materialismo e dell’indifferenza.
Se
così non fosse, davanti alle emergenze che ci stanno davanti, ci saremmo già messi
in ginocchio pregando Dio di avere misericordia di questa umanità così poco
riconoscente. Mentre i nostri fratelli cristiani, nel mondo soffrono la
persecuzione, nelle chiese si ode appena il sussurro di qualche preghiera rituale
la domenica. Vorrei proprio sbagliare; magari tante persone stanno pregando con
passione elevando novene e suppliche, ma temo che con i conventi, monasteri e
seminari vuoti sia venuto a mancare il volano principale che sfornava cuori
donati a nostro Signore in riparazione delle nostre debolezze. Più accumuliamo
iniziative nelle comunità parrocchiali, meno persone entrano in chiesa. Perché?
Io non lo so, quello di cui sono sicuro è che non dipende dalla pandemia, dal
caro-bollette, dalla povertà, dal lavoro o altro; se così fosse le chiese
dovrebbero riempirsi (almeno dai cristiani) per pregare l’Onnipotente
affinché esaudisca le nostre suppliche.
Quanto sono
lontani i tempi in cui le nostre mamme e nonne salivano con devozione ai
santuari per ottenere la salvezza dei propri cari al fronte. È quella devozione
che si è persa, un sentimento che vale più della stessa preghiera. Abbiamo
sottratto alle celebrazioni liturgiche il raccoglimento per il timore di trattenere troppo a lungo i
fedeli in chiesa, come se gli sbuffi e i colpi di tosse dei frettolosi fossero
segni importanti da tenere in considerazione per non privarci della loro
presenza. È servito a qualcosa? Questi cristiani si sono allontanati ugualmente
perché in chiesa non hanno trovato il Sacro, non hanno trovato il clima che favorisce
i sentimenti, l’amore verso Gesù che ritorna ogni volta sotto le specie del
pane e del vino per donarsi Divinamente ai suoi amici. La nostra è la Religione
più amorevole che esista al mondo, eppure nella pratica (celebrativa ed
umana), in Occidente, siamo dei nanerottoli a confronto dei nostri fratelli
perseguitati. È duro e triste ammetterlo, ma spesso viviamo di tradizione e non
di sentimento. Per cambiare non ci servono corsi biblici, sinodi, convegni o
indottrinamenti particolari, serve riprendere la strada degli esercizi
spirituali e creare spazi di silenzio durante la Messa e i sacerdoti devono dichiarare
apertamente e con forza quali sono i confini che non si possono superare per
mantenersi in armonia con Dio e con i fratelli. Far conoscere con tutta
l’autorità possibile quanto sia
pericoloso satana, se Dio non ci tiene per mano. L’esposizione del Santissimo poi,
è una iniziativa importantissima perché chiama ciascuno di noi a passare un po’
di tempo con Gesù. Qualcuno ha paura del confronto perché si ritiene incapace
ad esercitare questa pratica contemplativa (Chè noi sö a fa).
Qualcuno dovrebbe spiegare che non è richiesto proprio niente: desiderare di
ricevere la Sua compagnia e affidarGli i nostri problemi è più che sufficiente.
Se
con il sacerdote vicino non siamo riusciti a costruire la “grande famiglia dei
cristiani”, come faremo quando anche questo ci verrà tolto? La tentazione di
creare un tramite tra una comunità parrocchiale e un “vicario” nel segno della
tradizione non lo vedrei come stimolo alla conquista di una vitalità nuova.
Vedrei meglio l’individuazione (da parte del vescovo o del vicario) di una
persona benvoluta dalla popolazione ed esempio di fede vissuta, capace di
suggerire o raccogliere modi e tempi per pregare e per stare assieme. Potrà la distanza
dal sacerdote far scattare nella comunità cristiana una nuova energia o i
fedeli saranno costretti ad “emigrare” in cerca di ragioni profonde per cui
vivere? Cominciamo a pensarci!